Perchè si va in psicoterapia? In psicoterapia si va perché si vive in una condizione di sofferenza e non si riesce a darsi una spiegazione di tanto dolore. La psicoterapia psicoanalitica è in grado di fornire una risposta a questa sofferenza? Essa sa che nella sofferenza si cela dietro un desiderio, spesso con radici antiche, che preme per essere riconosciuto. Essa quindi è in grado di incontrare l'individuo laddove emerge il suo desiderio.
Lo stato di smarrimento di un paziente è molto doloroso, tale da richiedere un aiuto, perché permea una quotidianità che diventa quasi sconosciuta e non più familiare. Possiamo tuttavia considerarlo anche prezioso dal momento che racchiude il desiderio di potersi ritrovare, desiderio che il terapeuta dovrebbe incontrare, rimanendo ancorato alle necessità e alla specifica individualità della persona che ha di fronte. Avere un atteggiamento volto alla suggestione, all'insegnamento di una verità altra come unico suggerimento-imperativo su "come si vive", non è terapeutico, sfociando spesso o nella passiva compiacenza da parte del paziente o, all'opposto, ad una rottura della relazione terapeutica.
Freud, infatti, ha descritto un particolare stato mentale dell'analista chiamato "attenzione libera e fluttuante", una condizione di apertura e fiducia che permette di accedere ad uno spazio psichico che sospenda ciò che si sa, per facilitare una connessione con l'ignoto regno dell'inconscio.
Lo psicoanalista Bion descrive lo stato psichico ideale dell'analista come "senza memoria e senza desiderio", un terreno che permetta di incontrare l'autenticità del paziente dell'oggi, che è già diverso da quello incontrato precedentemente. Tale concetto è ovvio che non implichi la dimenticanza o la poca importanza data ai contenuti condivisi dal paziente, la sua storia, i suoi sogni e le specifiche modalità di esprimersi: al contrario, l'eccesso di memoria e il desiderio del terapeuta di portare a guarigione, sono relegati sullo sfondo per non saturare il campo clinico dell'hic et nunc.
Uno dei fattori terapeutici per eccellenza è quindi l'accoglienza dell'altro senza sovrastrutture mentali, un ascolto inedito che difficilmente si può riscontrare in maniera così neutrale e disinteressata in una qualsiasi amicizia. In legami così personali entrano in gioco fattori emotivi legati alla conoscenza reciproca, a scarsa onestà dovuta all'imbarazzo ad esempio, a dinamiche inconsce bidirezionali difficilmente individuabili.
In tal senso, il silenzio del terapeuta non rappresenta l'assenso per una libera evacuazione di contenuti concitati e caotici, eccessivamente carichi a livello emotivo da parte del paziente. A questo livello di comunicazione, infatti, non si accede ad alcuna trasformazione, si ha una invasione di campo che non apporta alcuna riflessione o rielaborazione, ma solo uno sfogo estemporaneo sopportato dal terapeuta, che attende passivamente un possibile (ancora lontano) varco di riflessione. L'ascolto terapeutico è profondamente diverso, è legato alla possibilità di esprimere ricordi, emozioni, pensieri sviluppando un discorso interiore, arricchito di aspetti personali in grado di riconnettersi con verità ormai ingiallite dal tempo, compiendo un viaggio a ritroso anche nello spazio. È di fondamentale importanza la sensibilità del terapeuta, in grado di volta in volta di calibrare i suoi interventi e il suo livello di partecipazione, stimando la possibilità del paziente di "farcela" da solo; ebbene ecco spiegato uno degli stereotipi tipici di una terapia di stampo psicoanalitico, l'analista che fa silenzio e “non dice una parola”: il silenzio è attesa e fiducia nel fatto che il paziente può essere artefice dell'unico e reale cambiamento possibile, al quale è necessario dare priorità rispetto agli interventi dello psicoterapeuta.
Dott.ssa Alessandra Roberti
Psicologa a Roma
Sono una Psicologa clinica. Fornisco consulenze e supporto psicologico, affiancando il paziente con sensibilità e competenza.
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